domenica 27 dicembre 2009

Sintomi di Aterosclerosi in mummie di oltre 3500 anni fa




Anche gli antichi egizi soffrivano di cuore. Indizi di calcificazione vascolare e aterosclerosi, due delle maggiori cause di malattie cardiache, sono state riscontrate in mummie di oltre 3500 anni fa da un'equipe di medici del Mid America Hearth Institute (Kansas City, USA). Non si può più parlare, quindi, di malattie esclusive dell'uomo moderno: le patologie cardiovascolari potrebbero invece essere ancora più antiche delle piramidi. I risultati di questo studio sono stati presentati al Meeting annuale dell'America Heart Association e pubblicati sul Journal of the America Medical Association.


La ricerca, guidata dal professor Randall C. Thompson in collaborazione con egittologi, esperti di conservazione di reperti antichi e analisti di immgini, è stata condotta su 22 mummie datate dal 1981 a.C. al 364 d.C. e custodite al museo di antichità egiziane del Cairo. Dei corpi studiati, 14 appartenevano a persone di alto lignaggio, tra cui quello di Rai, la dama di compagnia della regina Nefertari. Tutte le mummie, sono state sottoposte a Tomografia computerizzata a Raggi X, per avere una visione tridimensionale di alcune sezioni di tessuto. Dalle indagini, è risultato che l'aterosclerosi era presente in nove dei corpi studiati, ed era più frequente in quelle persone morte oltre i 45 anni di età; è stato riscontrato anche un caso di base cardiaca calcificata, un sintomo di solito associato all'infarto. La mummia più antica nella quale sono stati riscontrati sintomi simili, risale al 1530-1570 a.C.

"Non possiamo dire se l’aterosclerosi sia stata la causa della morte di queste persone", spiega Samuel Wann, uno degli autori della ricerca. Certo è che lo studio mette in discussione alcune presunte certezze contemporanee. "Abbiamo sempre pensato - continua Wann - che l'aterosclerosi fosse una malattia da 'McDonald’s', provocata da uno stile di vita tipico dei nostri giorni, e che le persone vissute tre o quattromila anni fa fossero meno a rischio nonostante una dieta ricca di proteine e sale: non fumavano, facevano esercizio fisico e non mangiavano cibi grassi". Questi ultimi studi sembrano invece raccontare una storia diversa.


martedì 15 dicembre 2009

Cannabinoidi responsabili dell'infertilità maschile



Gia da tempo si parla dei vari effetti che le sostanze cannabinoidi, principali costituenti della marijuana (fitocannabinoidi), possono avere sull'organismo (FARMACI CANNABINOIDI: un nemico o una risorsa?). Attualmente non è più solo un sospetto che l'abuso di tali sostanze sia coinvolto nell'infertilità maschile, conferma avuta dagli studi effettuati dai ricercatori del Cnr, in particolare l'istituto di chimica biomolecolare, l'istituto di cibernetica, l'istituto di biochimica delle proteine e dell'università degli studi di Roma Tor Vergata. Lo studio chiamato (endocannabinoid system and pivotal role of the CB2 receptor in mouse spermatogenesis) apre nuove prospettive sulla comprensione dei fenomeni di azospermia e oligospermia (diminuzione o assenza totale di spermatozoi) particolarmente in pazienti con normale assetto cromosomico. Tale studio ha infatti dimostrato che nei topi, il sistema endocannabinoide, dove agisce anche la marijuana, è coinvolto nel meccanismo della spermatogenesi. Secondo le più recenti statistiche, sarebbero il 15% le coppie con problemi legati alla fertilità, per il 40% attribuibili a oligospermia o azospermia. Le cause principali possono ricondursi ad origine genetica o malformazioni occlusive o che sfuggono alla classificazione. Una delle cause dell'oligospermia ad esempio potrebbe essere riconducibile al non corretto funzionamento del sistema endocannabinoide, di cui anche la cannabis potrebbe interferire. Si è osservato a tale proposito, che le cellule germinali possiedono recettori del sistema endocanabinoide, e in particolare il recettore CB2 è coinvolto nel meccanismo meiotico mediante il quale da ogni spermatocita primario (con assetto cromosomico 46 XY) si ottengono quattro spermatidi, due con assetto cromosomico 23X e due 23Y i quali daranno origine nel proseguirsi della spermigenesi agli spermatozoi maturi. In parallelo con questo studio, ricerche farmacologiche prevedono un trattamento in vivo con farmaci agonisti o antagonisti dei recettori CB2 ed inibitori della formazione o degradazione del sistema endocannabinoide che potrebbero modulare il funzionamento di tale sistema. Infine, conclude il ricercatore Vincenzo Di Marzo che ha collaborato in questo progetto, l'introduzione della fecondazione medicalmente assistita, se ha risolto gran parte dei casi di infertilità maschile, ha anche portato nella prole un aumento sia di trasmissione genetica dell'infertilità, sia una maggiore incidenza di anomalie cromosomiche, in particolare quelle da difetto di Imprinting (meccanismo coinvolto nella regolazione dell'espressione genica a vari livelli) e quindi varie sindromi rare come la sindrome di Angelman o la sindrome di Prader Willi.

sabato 5 dicembre 2009

CHE COSA SONO I GENI MARKER?




I geni marker sono usati per identificare e/o selezionare specifici organismi, la loro progenie o una parte di una popolazione cellulare tra migliaia di cellule presenti in una coltura. Attraverso il legame fisico del gene di interesse al gene marker, è possibile riconoscere e isolare l’organismo trasformato.
L’uso del gene marker è una pratica comunemente usata in microbiologia da molti anni. Questo concetto è stato esteso, poi, anche all’ingegneria genetica applicata alle piante. Oltre ai geni per la resistenza all’antibiotico, possono essere usati, per la selezione delle cellule vegetali trasformate, i geni per la tolleranza ad erbicidi, i geni che codificano per tratti metabolici e, infine, i geni reporter.
I geni per la resistenza all’antibiotico usati come marker per le piante geneticamente modificate (PGM) sollevano diverse preoccupazioni nel consumatore, in particolare per l’eventuale trasferimento genico orizzontale di questi geni dal materiale vegetale GM ai microrganismi presenti nella microflora del tratto digerente, che indurrebbe in questi ultimi un aumento del livello di resistenza verso tali antibiotici. Ciò potrebbe rappresentare un rischio per la salute umana ed animale, in quanto comprometterebbe il valore terapeutico degli antibiotici nel trattamento di determinate patologie. Questa preoccupazione è alimentata anche dal fatto che l’uso intenso di antibiotici in medicina umana e veterinaria (in questo ultimo caso anche come promotori di crescita) ha già determinato un aumento dell’antibiotico resistenza nella popolazione microbica (van den Eede et al., 2004). Sulla base dell’importanza nell’uso terapeutico dell’antibiotico corrispondente e della diffusione del gene di resistenza all’antibiotico nei batteri del suolo ed in quelli del tratto digerente, è stato possibile suddividere i geni marker in tre gruppi (van den Eede et al., 2004).